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Immagine del redattoreFrancesco Zingoni

Recessione? Non è detto


UNA PICCOLA RIFLESSIONE PRELIMINARE Il problema dell’inflazione è che non ha un’inversione di tendenza. Una volta che il genio dell’aumento dei prezzi è uscito dalla bottiglia, è difficile rimetterlo dentro, poiché il comportamento di fissazione dei prezzi cambia in modo permanente. L’esperienza storica dei mercati sviluppati dimostra che una volta che l’inflazione supera il 5%, ci vogliono circa dieci anni per tornare sotto al 2%. I mercati sviluppati sono tornati ai vecchi standard macro, mentre si chiude definitivamente la parentesi del QE. L’inflazione radicata ha portato ad aspettative di inflazione elevate e a tassi di interesse volatili. Quando le economie riprendono a valutare i persistenti aumenti dei prezzi, la pressione sui tassi a lungo termine aumenta e le oscillazioni aumentano proporzionalmente. Gli investitori e i risparmiatori dovranno quindi affrontare seriamente il problema della gestione dell’inflazione e dei tassi di interesse, proprio come avveniva fino alla metà degli anni 2000.


 


IN BREVE:

  • Le recessioni non sono crisi finanziarie;

  • Un breve periodo di stagflazione è possibile, ma non sarà una replica degli anni Settanta;

  • Una ripresa della crescita in Cina ridurrebbe l'impatto di eventuali recessioni negli Stati Uniti e in Europa.


Tutti ormai parlano di recessione. Il dibattito pubblico si è concentrato su questo tema in un modo mai visto nei cicli precedenti. Ad esempio, negli Stati Uniti, su Google a giugno 2022 si è registrato il doppio delle ricerche della parola "Recessione" rispetto a ottobre 2008, ovvero agli inizi della Crisi finanziaria globale (GFC), nonostante l'economia non abbia ancora smesso di creare posti di lavoro.


Gli Stati Uniti hanno sperimentato otto recessioni dal 1970, mentre la Germania ne ha vissute 12 nello stesso periodo; le recessioni quindi non sono rare, né portano sempre alla crisi economica. Per recessione, anche detta recessione tecnica, intendiamo, in genere, due o più trimestri consecutivi di flessione del PIL reale. Inoltre, non sempre le recessioni sono gravi, possono anche essere lievi e non incidere sulla vita della maggior parte delle persone. Nel primo semestre 2022 gli Stati Uniti sono finiti in recessione? Tecnicamente sì. Ma non per l'economia in generale. Nella prima metà del 2022, il PIL USA ha subito una contrazione per due trimestri consecutivi; quindi, stando alla precedente definizione, si può parlare di recessione tecnica dell'economia statunitense nel primo semestre 2022. Tuttavia, negli Stati Uniti c'è un'istituzione incaricata di determinare ufficialmente l'inizio e la fine delle recessioni: il National Bureau of Economic Research (NBER), che non ricorre alla semplice definizione dei due trimestri consecutivi di flessione del PIL. Il comitato del NBER esamina "gli indicatori dell'attività economica a livello di intera economia... perché una recessione deve influenzare l'economia nel suo complesso e non interessare un solo settore". La Figura 2 mostra che, ad eccezione del reddito personale reale – in stagnazione a causa dell'inflazione – tutte le altre variabili monitorate dal NBER hanno registrato un'espansione nel primo semestre 2022, motivo per cui è molto improbabile che il comitato dichiari una recessione.


Le recessioni sono gravi se legate a una crisi finanziaria. Nel 2001 l'economia USA è stata in recessione da marzo a novembre, con una contrazione economica di appena lo 0,3% dal picco al minimo e un aumento del tasso di disoccupazione dal 3,9% al 5,9%. Nello stesso anno, il PIL ha recuperato tutto il terreno perduto ma la disoccupazione è rimasta leggermente al di sopra del 5% per quattro anni. Il dato non sembra allarmante ma non è troppo lontano dall'aumento della disoccupazione di 3,6 punti percentuali del dato mediano delle recessioni USA. Di contro, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 10% durante la GFC (2008-09) ed è rimasto sopra il 5% per otto anni. Questo perché la GFC non è stata una recessione normale ma è stata accompagnata da una crisi finanziaria, di solito associata a flessioni più importanti e a riprese molto più lente in quanto in queste situazioni le Banche non sono in grado di finanziare efficacemente la ripresa.


Dopo la GFC, le Banche Statunitensi ed Europee sono state sottoposte a un lungo processo di riduzione dell'indebitamento e a una regolamentazione molto più restrittiva per evitare che si ripetessero gli eccessi degli anni Duemila che avevano portato alla crisi. Oggi queste Banche sono considerate in buone condizioni finanziarie, come dimostrato dalla loro capacità di fornire ingenti quantità di credito che hanno aiutato le rispettive economie a riprendersi rapidamente dopo la pandemia. Sembra, quindi, poco plausibile che la prossima recessione sia una crisi finanziaria. Perché molti operatori di mercato ritengono che una recessione possa essere dietro l'angolo? I Paesi sviluppati sono interessati dalla più travolgente ondata d'inflazione degli ultimi quarant'anni a causa di una combinazione di fattori legati alla domanda e all'offerta: i prezzi aumentano quando l'offerta non riesce a stare al passo con l'aumento della domanda. Sul fronte della domanda, gli eccessivi incentivi monetari e fiscali erogati durante la pandemia, insieme alla domanda repressa di servizi, fanno salire i prezzi; su quello dell'offerta, i vincoli della catena di approvvigionamento globale dovuti ai lockdown durante la pandemia, uniti all'inadeguatezza degli investimenti nelle materie prime energetiche effettuati nel decennio precedente, si traducono in un'offerta non sufficientemente elastica di beni ed energia. Ciò ha coinciso, inoltre, con l'imposizione di sanzioni che hanno interrotto o messo a rischio la sicurezza energetica. Le Banche Centrali non possono fare nulla per aumentare l'offerta di beni e servizi e abbassare i prezzi: la loro unica opzione è ridurre la domanda limitando la crescita del credito e della massa monetaria. Per fare ciò devono aumentare i tassi di interesse in modo che le banche limitino l'erogazione dei prestiti, mentre privati e imprese riducono i prestiti e gli investimenti a causa dell'aumento dei costi di finanziamento. Questo, spesso, porta a una recessione che fa scendere l'inflazione. Dipende dal tipo di ciclo inflazionistico in cui ci troviamo. Quando l'inflazione è leggermente elevata, un modesto aumento dei tassi d'interesse è sufficiente a ridurre la domanda e a riportare l'economia a un equilibrio di bassa inflazione, con un conseguente soft landing. Ma quando l'inflazione si impenna, come oggi, tanto da sorprendere i responsabili delle Banche Centrali che non avevano mai visto tali livelli di inflazione in tutta la loro carriera, allora sono necessari aumenti dei tassi di interesse più rapidi e più consistenti per porre un freno all'inflazione, come negli anni Settanta, rendendo più probabile una recessione. Tuttavia, l'inizio della disinflazione a luglio negli Stati Uniti e la previsione di consensus degli economisti di un'inflazione inferiore al 3% entro il quarto trimestre 2024 offrono un barlume di speranza per uno scenario di soft landing (nessuna recessione). Siamo diretti verso una stagflazione in stile anni Settanta – un periodo di bassa crescita e inflazione alle stelle? Nell'ottobre 1973 l'inflazione USA era già elevata (8%) a seguito dell'abbandono del sistema di Bretton Woods (sospensione della convertibilità del dollaro in oro) e della conseguente svalutazione del dollaro rispetto al marco tedesco, al franco svizzero e allo yen giapponese. In seguito, i Paesi dell'OPEC imposero un embargo di sei mesi sulle esportazioni petrolifere verso i Paesi che avevano sostenuto Israele durante la breve "Quarta guerra arabo-israeliana". Quasi triplicate da un giorno all'altro, le quotazioni petrolifere fecero salire l'inflazione al 12,2% nel novembre 1974 e costrinsero la Federal Reserve USA ad aumentare i tassi di interesse da un livello già alto del 10% a oltre il 13% a metà del 1974. Un calo del 3,1% del PIL portò il tasso di disoccupazione al 9%, che rimase comunque al di sopra del 6% per i tre anni successivi. Tuttavia, per tutto il resto degli anni Settanta l'inflazione restò superiore al 5%, probabilmente perché la Fed non mantenne i tassi di interesse elevati per un periodo sufficientemente lungo – un errore politico che contribuì ad aumentare la volatilità macroeconomica e finanziaria. Un errore che, il presidente della Fed Jerome Powell ha recentemente sottolineato, non intende ripetere con un taglio dei tassi prematuro nel 2023. Nel 1979 un'altra crisi petrolifera sconvolse l'economia mondiale, con le quotazioni petrolifere di nuovo triplicate sulla scia della rivoluzione iraniana e poi della guerra Iran-Iraq. L'inflazione superò il 15% negli Stati Uniti a metà degli anni Ottanta, e gli Stati Uniti e altri Paesi sviluppati finirono nuovamente in recessione. Questa volta la Fed, guidata da Paul Volcker, agì in modo molto più deciso, aumentando i tassi di interesse fino al 22% entro la fine del 1980. Da allora, l'inflazione USA è rimasta relativamente ridotta e stabile fino a poco tempo fa.


Un breve periodo di stagflazione è possibile negli Stati Uniti, ma difficilmente sarà così grave o lungo come negli anni Settanta. Nell'ultimo anno e mezzo le quotazioni petrolifere sono pressoché raddoppiate e non triplicate in pochi mesi come accaduto nel 1973 e poi ancora nel 1979. Inoltre, grazie all'efficienza tecnologica, l'economia globale è diventata molto meno dipendente dal petrolio rispetto a 40 anni fa. Secondo il FMI, all'epoca il mondo aveva bisogno di una quantità di petrolio 3,5 volte superiore per creare la stessa quantità di produzione economica. Inoltre, negli Stati Uniti la percentuale di lavoratori rappresentati dai sindacati si è dimezzata dall'inizio degli anni Ottanta, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori; seppur negativo per i lavoratori, questo contribuisce a ridurre la persistenza dell'inflazione limitando l'indicizzazione dei salari. Inoltre, la politica monetaria e la credibilità della Banca Centrale non erano ben consolidate prima dell'era Volcker. La Fed e le altre Banche Centrali sviluppate potrebbero aver accumulato del ritardo lo scorso anno, ma ora sono determinate ad alzare i tassi fino a riportare l'inflazione sotto controllo. Di conseguenza, anche se i Paesi sviluppati potrebbero temporaneamente finire in stagflazione, difficilmente sarà così grave e lunga come negli anni Settanta.


Le banche centrali dei mercati emergenti sono in anticipo in questo ciclo. L'inflazione globale sta interessando anche i mercati emergenti (ME), un gruppo di Paesi ampio e diversificato. L'inflazione media ponderata dei 15 maggiori ME si è attestata all'8,6% a giugno, in rialzo rispetto al 3,3% dell'anno precedente, ma sorprendentemente simile alla media ponderata dei Paesi sviluppati (8,2%). Come i Paesi sviluppati, alcuni ME potrebbero aver esagerato con gli incentivi nel 2020 ma la maggior parte dei ME risulta essere in anticipo nella lotta all'inflazione rispetto ai mercati sviluppati, forse a causa delle loro più recenti esperienze con l'inflazione elevata. La maggior parte delle Banche Centrali dei ME ha aumentato i tassi dall'anno scorso e, in alcuni casi, in modo aggressivo. L'Asia rappresenta un'eccezione, poiché al momento si trova ad affrontare pressioni inflazionistiche inferiori rispetto alla maggior parte delle regioni. Il Brasile potrebbe aver qualcosa da insegnare al resto del mondo essendo in anticipo nell'attuale ciclo economico. Le analogie con il periodo di stagflazione degli anni Settanta sono utili, ma possiamo anche fare dei confronti con i Paesi che sono più avanti nell'attuale ciclo economico per analizzare i possibili sviluppi nel resto del mondo. Il Brasile è probabilmente l'esempio migliore. Dopo aver subito restrizioni limitate e di breve durata per la pandemia (a causa dello scetticismo del presidente Bolsonaro nei confronti del Covid) e aver imposto incentivi monetari e fiscali relativamente importanti per gli standard dei ME, l'economia brasiliana si è ripresa completamente a dicembre 2020, prima della maggior parte dei Paesi della regione. Ma la ripresa ha iniziato presto a scontrarsi con diverse sfide. L'economia ha subito una lieve contrazione del PIL (0,2%) nel secondo trimestre 2021, mentre nel primo semestre 2021 l'inflazione è aumentata più rapidamente rispetto alla maggior parte dei Paesi. A differenza dei mercati sviluppati, la reazione della Banca Centrale brasiliana è stata rapida e decisa, mediante un aumento dei tassi di interesse dal 2% del marzo 2021 al 13,75% dell'agosto 2022. La crescita è stata relativamente lenta dalla metà del 2021, ma la disoccupazione ha continuato a diminuire. L'inflazione rimane elevata (10,8% a giugno) nonostante i rialzi dei tassi, a causa di fattori globali. L'economia rimarrà probabilmente vicina alla stagflazione fino al rallentamento dell'inflazione globale, quando la Banca Centrale brasiliana sarà in grado di allentare gradualmente le condizioni monetarie e il credito ricomincerà a fluire.


Altre economie emergenti potrebbero trovarsi alle prese con cicli di volatilità simili, in particolare quelle le cui economie appaiono surriscaldate come il Cile e la Colombia. La recessione potrebbe essere evitata nei Paesi in cui gli incentivi sono stati modesti e l'economia ha ancora capacità inutilizzata per assorbire la ripresa della domanda. Per i Paesi sviluppati, un rialzo dei tassi come quello brasiliano non sarebbe ovviamente realistico ma è probabile che, alla fine, seguano un percorso simile a quello del Brasile: aumento dei tassi di interesse, rallentamento della crescita economica e, potenzialmente, una recessione prima che l'inflazione si normalizzi a un livello accettabile. La Cina potrebbe ridurre l'impatto delle recessioni negli Stati Uniti e in Europa. Un altro aspetto positivo è che, mentre la maggior parte delle economie sviluppate attraverserà una fase di rallentamento economico, e forse una lieve recessione, l'economia cinese dovrebbe riaccelerare grazie a una possibile riapertura completa dell'economia una volta abbandonata la politica della tolleranza zero nei confronti del Covid. Ciò potrebbe accadere nel 2023, dopo la rielezione di Xi Jinping nel novembre 2022 e una volta ottenuti maggiori progressi sul fronte vaccinale. La Cina è la seconda economia al mondo ed è il primo o il secondo partner commerciale per quasi tutti i ME. Una ripresa della crescita cinese ridurrebbe, quindi, l'impatto di eventuali recessioni negli Stati Uniti e in Europa, in particolare per i Paesi emergenti che esportano materie prime. Di conseguenza, una recessione globale appare improbabile.



IN CONCLUSIONE:

  • Consideriamo la crisi energetica come un ponte tra il vecchio mondo caratterizzato dall’espansione monetaria, e il nuovo mondo caratterizzato da un’inflazione elevata e persistente nei mercati sviluppati;

  • il nuovo mondo, tuttavia, non è poi così nuovo, poiché ci riporta alla vecchia normalità, prevalente in tutti i Paesi prima del 2008. Pertanto, gli investitori dovranno guardare alla politica macro e ai mercati del reddito fisso con delle nuove (vecchie) lenti;

  • l’inflazione rimarrà elevata e volatile, riportando le banche centrali a un ruolo di sorveglianza;

  • la disciplina fiscale è tornata, quindi gli scostamenti di bilancio dovranno passare il vaglio del mercato. I governi che non si adeguano saranno puniti con la debolezza della propria valuta.

In altre parole, la macroeconomia è tornata.

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